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La lavagna - Modenesità

Palaganeide (Poemetto Eroicomico) - Tanino / Canto Quinto

GROG
Scritto il 05/04/2009
da GROG
CANTO QUINTO

ARGOMENTO

Su di una pianta Bortolino astuto
Taglia il ramo, che in alto lo sostiene:
Un frate lo riprende, ed ei, cocciuto,
Vuol seguitar; ma al suol batte le schiene.
La morte gli predice il frate arguto;
Ei muore, e il popolo a levarlo viene;
Ma lungo il viaggio il morto torna in vita
E ai portatori la via buona addita.





Fallita la cuccagna ormai del'ova,
Palagano dove per altra via
Far di somari una provvista nuova :
E poiché dalla terra nulla uscia,
Anche dei pali abbandonò la prova,
Maledicendo invan la sorte ria;
Sicché tutto soggiace alla fortuna,
Che avea subito già la nuova luna.

S'avvicina il verno e Bortolino,
Che l'estive giornate avea trascorse
A regger di Palagano il destino,
D'esser privo di legna un dì s'accorse.
E, siccome dai tizzi del camino
Traeva il genio suo grandi risorse.
Il basto caricò sul somarello
Ed ambi al bosco s'avviar bel bello.

Là giunti, s'abbatterono a passare
Sotto un antico e smisurato tronco,
Sul quale si vedeva biancheggiare
Un Grosso ramo inaridito e monco :
Pensando che potevagli bastare
Per caricare il socio, sol quel bronco,
Bortolino sul faggio ascese ratto
E snello sì, da far vergogna a un gatto.

Assicurossi prima, da prudente,
Che il ramo lo potesse sopportare,
Poi su di quello (al tronco ben rasente)
Colpi d'accetta cominciò a menare :
Il broncone cedeva ed il sapiente
Sotto i piedi sentialo tremolare,
Onde, lieto che a vincerlo riesciva,
Sempre più sodi i colpi suoi spediva.

Sul prossimo sentiero un cappuccino
S'abbatteva a passare in quel momento :
Ei, sentendo tagliar così vicino,
Fissò gli occhi nel bosco e, alzando il mento,
Potè vedere il magno Bortolino,
Che a recidere il bronco stava intento.
Così strana la cosa gli sembrò
Che, a testa in alto, estatico restò.

Poi, prevedendo un imminente crollo,
Gridò : « Cessate di tagliare, amico,
Che c'è da restar fritto come un pollo!
Non vedete che il ramo ormai fa fico,
O volete troncarvi proprio il collo?... »
Fermossi, a tali detti, il savio antico;
Abbassò gli occhi, ed alcun poco fisse
Tenne sul frate le pupille e disse :

« Fin che si tratta d' acqua benedetta,
Di messe, uffici, vespri e avemaria,
Da voi verrò a pigliare la ricetta;
Ma se poi vi saltasse la mania
D'insegnarmi a tenere in man l'accetta,
Crederei poter dirvi, in fede mia,
Che la lezione non mi va a fagiolo
D'un che non ha mai fatto il boscaiolo ».

Al sentir quell'enfatico sermone,
Comprese tosto il padre reverendo
Che avea da farla con un gocciolone,
E seco stesso mormorò ridendo :
« Te ne avvedrai fra poco, mattacchione! »
E la sua strada proseguì dicendo :
« Tirate pur avanti, fìgliol mio;
Contento voi, sono contento anch'io! »

Ma non aveva fatto venti passi,
Che udì uno schianto, un urlo, un patassìo;
Un urtar di metallo contro i sassi,
Un lungo raglio, un esclamar: Oh Dio!
Retrocedette il frate e tra quei massi
Scorse di schegge e rami un rovinio
E, fra i rottami del disastro immane,
Bortolin che guaiva come un cane.

Il cappuccino tosto con premura
S'affrettò a sollevare il poveraccio,
II quale, mezzo morto di paura,
Pallido il viso avea come uno straccio;
Ma, all'infuori di qualche scalfittura
E d'un leggero sgorbio sul mustaccio,
L'avea cavata egregiamente bene,
Come agli scemi in certi casi avviene.

Gli disse allora : « Ve l'avea annunziata.
Uomo insensato, questa capriola,
Ma la vostra superbia indiavolata
Vi fa sprezzar dei saggi l'alta scuola
E dopo ve la fa pagar salata... »
E Bortolin con umile parola :
« Padre buono, avevate pur ragione!...
Certo voi siete un santo o uno stregone ».

« E giacché avete tanta facoltà
Di legger cosi bene l'avvenire
E prevedere con facilità
Cose che nessun altro può intuire,
Fatemi, padre mio, la carità
Di dirmi il giorno che dovrò morire;
Affinché mi ci possa preparare
E i miei interessi a tempo regolare ».

E il frate : « Perché vedo da lontano
Che sei palaganorum de familia,
Non vò che m'abbi interpellato invano ».
Disse, e inarcando le severe ciglia,
Prese un aspetto misterioso e strano,
E, del duca con grande meraviglia,
Incomprese parole mormorò,
Batté col piede il suolo e profetò :

« Davanti agli occhi della mente io veggo,
Come in un libro a stampa, il tuo destino;
Ma, povero figliolo, ormai preveggo
Che il tuo supremo istante è ben vicino.
Nei libri eterni a chiare note leggo
Che quando il tuo fedele somarino
Avrà mandato fuori il terzo flato
Anche tu spirerai l'ultimo fiato ».

Ciò detto, del baleno più veloce,
Il frate s'involò da quel paraggio,
Lasciando senza fiato, senza voce,
Senza speranza il valoroso saggio,
Che, dopo un Credo di spavento atroce,
Mandò un sospiro, fecesi coraggio
E gridò : « Padre, dove siete andato?
Non c'è dunque più scampo? Io son spacciato? »

Ma quando non si vide più dattorno
Che piante, sassi e il somarel fatale,
Gli risovvenne che quel brutto giorno
Esser potea l'estremo suo mortale :
Per cui tosto pensò di far ritorno
A casa col fatidico animale,
Almeno per aver l'estrema gioia
Sul proprio letto di tirar le cuoia.

E senza più curar legna ed accetta,
Coll'idea fissa di dover morire,
Inforcò il somarello e in tutta fretta
Prese verso Palagano a fuggire :
Ma, nel salir un'ardua collinetta,
L'infausta bestia si lasciò sfuggire,
senza riguardo alcuno al galateo,
Il più sonoro flato da plebeo.

Al suon di quell'orribile favella,
Gelò dallo spavento il poveraccio :
Non scese no, precipitò di sella,
E, ficcandosi l'ugne nel mostaccio,
Desolato gridò : « L'ho fatta bella,
A provocar io stesso il primo impaccio!
Che sul somaro non dovea montare;
Ma, libero di sé, lasciarlo andare...! »

Intanto ch'egli geme e si rammarica
La bestia, senza l'ombra di decoro,
Lieta d'aver deposta quella carica,
Sprigiona un raglio fervido e sonoro,
Seguito da una forte retroscarica,
Che a Bortolin sembra di morti un coro,
Onde rimane lì freddo, impietrato,
Al pari d'un fantasima impagliato.

Ma, sentendosi scorrer per le vene
Il gelo, messaggero della morte,
Si riscuote fremendo e gli sovviene
Che i suoi momenti ormai sono alle corte
E che dipende da uno sforzo lene
Del fatal somarello la sua sorte,
Onde la bestia afferra e la trascina,
Quasi di peso, su per l'ardua china.

Ma la testarda, che del suo padrone
La morte stima al pari della vita,
All'aiuto benevolo s'oppone;
E quindi nasce una lotta accanita :
Lavora l'un di braccia e di groppone,
Rincula l'altra sempre più imbizzita,
E proprio nel più bello del cimento
Sciorina all'aria il terzo e ultimo vento,

Un velo tenebroso innanzi agli occhi
Cala improvviso al povero morente;
S'arresta il polso, tremano i ginocchi
E il sangue a flotti al capo salir sente :
Il cuor rallenta e affievolisce i tocchi,
Le idee gli si confondon nella mente;
Né potendosi più sostener diritto
Cade a terra esclamando: « Ormai son fritto!...»

Da molto era passato il mezzogiorno
E Bortolino ancor non si vedea;
Alfin solo il somar fece ritorno;
Ma ciò nulla di lieto promettea;
Laonde, prima che cadesse il giorno,
Raunossi del paese l'assemblea
E decise di porsi tosto in viaggio
Per far ricerca del famoso saggio.

Né tardarono molto a pervenire
Dove l'illustre morto da tre ore
Si stava biascicando il dies irae.
Qui, sfogata la piena del dolore,
Si diedero fra loro a stabilire
Come prestargli il meritato onore,
E, giacché assister non l'avean potuto,
Rendergli almeno l'ultimo tributo.

Ben tosto fu spedito un messaggero
A esporre il caso, e dopo brevi istanti
Uomini, donne, secolari e clero,
Tra sospiri affannosi e amari pianti,
Avean salito il lugubre sentiero
E al caro morto stavano davanti.
Sulla bara il deposer mestamente
E s'avviò la compagnia dolente.

Ma quando fu il convoglio a un passo giunto,
Ove il sentiero in due si divideva,
Sorse fra i portatori un disappunto :
Chi a destra e chi a sinistra andar voleva;
E, sostenendo ognuno il proprio punto
(Che ognun migliore la sua via teneva)
Ne nacque in breve un certo pandemonio,
Da disgradar la casa del demonio.

Quinci e quindi le idee restando scisse,
Ben tardi la question saria finita,
Se il morto, gran piacere fin che visse,
Non avesse composta la partita.
S'alzò egli dunque sulla bara e disse :
« Figlioli miei, quand'ero sempre in vita,
Da sinistra ero solito passare.
Né da morto il sentier vorrei cambiare ».

Con tanta scienza, quello stuolo eletto
Dei morti ancor non conoscea gli accenti;
Onde, all'udir colui dal cataletto
Dar ordini, all'usanza dei viventi,
Provarono un tal battito di petto.
Che, senza stare a far altri commenti,
Si diedero a fuggir, privi di voce,
Piantando morto, bara, ceri e croce.

Ma più di tutti restò male il morto,
Al vedersi trattar sì incivilmente.
« Ecco, esclamava nel dolore assorto,
Il ben che mi voleva la mia gente!
Ecco l'onor!... « Ma poi, da uomo accorto.
Si levò in pie, pensando saviamente :
« Se sopra terra non vorran lasciarmi,
Ci penserà qualcuno a sotterrarmi ».

E, rassegnatosi alla propria sorte.
Verso il paese s'avviò pian piano.
Col passo maestoso della morte.
Il popolo chiamando colla mano;
Ma il popolo chiudea finestre e porte.
Appena lo scorgeva da lontano,
E in casa si tappò tutta Palagano,
Come fosse imminente un forte uragano.

Il morto allora cominciò a gridare :
« O pazzi, che vi prenda la malora!...
S'anche non mi volete sotterrare,
C'è da fuggire?... Starò al mondo ancora!
Ma pensate a portarmi da mangiare;
Perché i defunti, che la morte onora,
Finché di sepoltura restan privi,
Campano a tutto carico dei vivi ».

A tali detti ritornò il coraggio
Nei figli della nobile nazione.
Usciron fuori i capi del villaggio,
Per pigliar su due pie una decisione;
E, dopo lunga discussione, un saggio
Propose l'applaudita conclusione :
« Non esser degno ancor del camposanto
Un uomo che per fame urlava tanto ».

S'appressarono quindi a Bortolino
E, con aria solenne di mistero,
Lo scongiuraron, per il gran Merlino,
A dichiarar se morto era davvero.
Il fatto egli narrò del cappuccino,
La profezia, i tre flati del somiero
E concluse : « O bugiardo fu l'oracolo,
O son risuscitato per miracolo ».